Pasolini e il cambiamento del linguaggio dei giovani

Scena del film Accattone
Scena del film Accattone

Il cambiamento, secondo Pasolini, non avvenne soltanto nella lingua, in particolar modo nell’italiano parlato e scritto ma investì qualsiasi aspetto della realtà italiana. Colpì anche la società e il suo stile di vita, e il lato antropologico del fenomeno fu anch’esso analizzato dallo scrittore in tutti suoi aspetti più affascinanti. Pasolini sosteneva che la cultura italiana era espressa ormai soltanto attraverso il linguaggio del comportamento: “È a un tale livello di comunicazione linguistica che si manifestano: a) la mutazione antropologica degli italiani; b) la loro completa omologazione a un unico modello.”

Ciò che stava succedendo un decennio dopo il benessere provocato dal boom economico e dalla nascente società dei consumi aveva scaturito movimenti di protesta, da parte dei giovani, simultaneamente in diverse parti d’Europa e del mondo. Il movimento Hippy negli Stati Uniti fu molto influente nello stile di vita di milioni di giovani che credevano di ribellarsi a una società malata che scandiva i ritmi della sua esistenza con la logica del consumismo e la possessione di beni materiali.

Questa contestazione colpì molto Pasolini, che non mancò di studiarne gli aspetti più controversi e polemici. Molto indicativo fu il suo “discorso” dei capelli del 1973: 

“La prima volta che ho visto i capelloni, è stato a Praga. Nella hall dell’albergo dove alloggiavo sono entrati due giovani stranieri, con i capelli lunghi fino alle spalle. […] Essi, infatti, in quella particolare situazione – che era del tutto pubblica, o sociale, e, starei per dire, ufficiale – non avevano affatto bisogno di parlare. Il loro silenzio era rigorosamente funzionale. E lo era semplicemente, perché la parola era superflua. I due, infatti, usavano per comunicare con gli astanti, con gli osservatori – coi loro fratelli di quel momento – un altro linguaggio che quello formato da parole. Ciò che sostituiva il tradizionale linguaggio verbale, rendendolo superfluo – e trovando del resto immediata collocazione nell’ampio dominio dei «segni», nell’ambito ciò della semiologia – era il linguaggio dei loro capelli.  Si trattava di un unico segno – appunto la lunghezza dei loro capelli cadenti sulle spalle – in cui erano concentrati tutti i possibili segni di un linguaggio articolato. Qual era il senso del loro messaggio silenzioso ed esclusivamente fisico?  Era questo:”Noi siamo due Capelloni. Apparteniamo a una nuova categoria umana che sta facendo la comparsa nel mondo in questi giorni, che ha il suo centro in America e che, in provincia (come per esempio anzi, soprattutto – qui a Praga) è ignorata. Noi siamo dunque per voi una Apparizione. Esercitiamo il nostro apostolato, già pieni di un sapere che ci colma e ci esaurisce totalmente. Non abbiamo nulla da aggiungere oralmente e razionalmente a ciò che fisicamente e ontologicamente dicono i nostri capelli. Il sapere che ci riempie, anche per tramite del nostro apostolato, apparterrà un giorno anche a voi. Per ora è una Novità, una grande Novità, che crea nel mondo, con lo scandalo, un’attesa: la quale non verrà tradita. I borghesi fanno bene a guardarci con odio e terrore […] Io fui destinatario di questa comunicazione, e fui anche subito in grado di decifrarla: quel linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi, poteva essere appreso immediatamente, anche perché, semiologicamente parlando, altro non era che una forma di quel «linguaggio della presenza fisica» che da sempre gli uomini sono in grado di usare.”

Subito dopo Pasolini fornisce il significato di quei “capelloni” portati lunghi fin sopra le spalle da quei ragazzi che urlavano un messaggio ben più complesso: 

“La civiltà consumistica ci ha nauseati. Noi protestiamo in modo radicale. Creiamo un anticorpo a tale civiltà, attraverso il rifiuto. Tutto pareva andare per il meglio, eh? La nostra generazione doveva essere una generazione di integrati? Ed ecco invece come si mettono in realtà le cose. Noi opponiamo la follia a un destino di executives. Creiamo nuovi valori religiosi nell’entropia borghese, proprio nel momento in cui stava diventando perfettamente laica ed edonistica. Lo facciamo con un clamore e una violenza rivoluzionaria (violenza di non-violenti!) perché la nostra critica verso la nostra società è totale e intransigente.  Non credo che, se interrogati secondo il sistema tradizionale del linguaggio verbale, essi sarebbero stati in grado di esprimere in modo cosi articolato l’assunto dei loro capelli: fatto sta che era questo che essi in sostanza esprimevano. Quanto a me, benché sospettassi fin da allora che il loro «sistema di segni» fosse prodotto di una sottocultura di protesta che si opponeva a una sottocultura di potere, e che la loro rivoluzione non marxista fosse sospetta, continuai per un pezzo a essere dalla loro parte, assumendoli almeno nell’elemento anarchico della mia ideologia.  […] Venne il 1968. I capelloni furono assorbiti dal Movimento Studentesco; sventolarono con le bandiere rosse sulle barricate. Il loro linguaggio esprimeva sempre più «cose» di Sinistra. (Che Guevara era capellone ecc.)  Nel 1969 – con la strage di Milano, la Mafia, gli emissari dei colonnelli greci, la complicità dei Ministri, la trama nera, i provocatori – i capelloni si erano enormemente diffusi: benché non fossero ancora numericamente la maggioranza, lo erano però per il peso ideologico che essi avevano assunto. Ora i capelloni non erano più silenziosi: non delegavano al sistema segnico dei loro capelli la loro intera capacità comunicativa ed espressiva. Al contrario, la presenza fisica dei capelli era, in certo modo, declassata a funzione distintiva. Era tornato in funzione l’uso tradizionale del linguaggio verbale. E non dico verbale per puro caso. Anzi, lo sottolineo. Si è parlato tanto dal ‘ 68 al’ 70, tanto, che per un pezzo se ne potrà fare a meno: si è dato fondo alla verbalità, e il verbalismo è stata la nuova ars retorica della rivoluzione (gauchismo, malattia verbale del marxismo!).   Benché i capelli – riassorbiti nella furia verbale – non parlassero più autonomamente ai destinatari frastornati, io trovai tuttavia la forza di acuire le mie capacità decodificatrici, e, nel fracasso, cercai di prestare ascolto al discorso silenzioso, evidentemente non interrotto, di quei capelli sempre più lunghi.  Cosa dicevano, essi, ora? Dicevano: «Sì, è vero, diciamo cose di Sinistra; il nostro senso – benché puramente fiancheggiatore del senso dei messaggi verbali – è un senso di Sinistra… Ma… Ma….”  

La scelta di portare i capelli lunghi, come sinonimo di contestazione per Pasolini si è rivelata troppo debole per far sì che i giovani potessero aver ragione di protestare e nell’ultima parte del “discorso” lo scrittore conclude rivelando ciò che realmente pensa di questa ribellione giovanile: essa è riconducibile alla forza omologatrice dei mass media e della classe dirigente; in sostanza i giovani non protestano affatto, sono più conformisti di quanto essi credono. 

I borghesi, creatori di un nuovo tipo di civiltà, non potevano che giungere a derealizzare il corpo. Ci sono riusciti, infatti, e ne hanno fatto una maschera. I giovani altro non sono oggi che delle mostruose maschere “primitive” di una nuova specie di iniziazione – fintamente negativa – al rito consumistico.”

“Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Sono saltate fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli, da impiegati buffoni, da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da mercenari, da imbroglioni, da benpensanti teppisti. Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri – che sono la storia in evoluzione e la cultura precedente – alzando contro di essi una barriera insormontabile, ha finito con l’isolarli, impedendo loro, coi loro padri, un rapporto dialettico. Ora, solo attraverso tale rapporto dialettico – sia pur drammatico ed estremizzato – essi avrebbero potuto avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, «superare» i padri. Invece l’isolamento in cui si sono chiusi – come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù – li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica: e ciò ha implicato – fatalmente – un regresso. Essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre.  Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le «cose» della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere.  Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino. La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda.”

In una delle pagine di Scritti Corsari, Pasolini identifica questi atteggiamenti dei giovani denominandoli atti culturali, compiuti inconsapevolmente con l’intenzione di infrangere le regole della famiglia, della società e delle istituzioni.

Tutti i giovani ormai si comportano allo stesso modo, non vi è distinzione di ceto o appartenenza politica; Pasolini è ben consapevole del loro adattamento alle regole sociali e esamina scrupolosamente ogni atteggiamento e comportamento che essi compiono sotto gli occhi dell’opinione pubblica:

“[…] Decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi (in una citazione protonovecentesca); decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze tenute accanto esornativamente, ma, nel tempo stesso, con la pretesa che siano «libere» ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali. 

Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968.”