Pasolini contro la televisione

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Pasolini ospite della trasmissione di Enzo Biagi ‘III°B facciamo l’appello’ nel 1971

Pasolini vide nella televisione il veicolo principale per la diffusione della nuova forza omologatrice diretta a tutti gli italiani.

Lo sviluppo di questo mezzo di comunicazione di massa deve la sua fortuna all’impatto favorevole che ebbe, quasi immediatamente, presso ogni ambiente e famiglia italiana. Negli anni cinquanta possedere un “apparecchio televisivo” era considerato una fortuna riservata a pochi, le persone si riunivano in bar o nelle abitazioni dei propri vicini pur di guardare i programmi preferiti: il Musichiere, Lascia o raddoppia? e tanti altri.

Questo rituale che attirava i “telespettatori” a sedersi passivamente davanti ai televisori, in concomitanza con la mentalità borghese che tendeva a uniformare il pensiero e le abitudini della    massa, fu per Pasolini l’atto definitivo che portò alla corruzione dello spirito italiano.

In saggi sparsi l’intellettuale friulano esordì, nella sua lunga analisi del fenomeno televisivo, con un riferimento ad un film diretto da Liliana Cavani, che raccontava la vita di uno dei santi più cari all’Italia, visto proprio in TV, dal titolo San Francesco.

il suo film è un prodotto tipicamente televisivo. […] San Francesco è divenuto accessibile alla borghesia italiana (i cosiddetti telespettatori) attraverso la sua appartenenza a un ambiente borghese […]», e ne notava in modo ricorrente la volgarità.puramente comunicativa, tecnologica, che si stava imponendo nella società neocapitalistica, e alla quale la letteratura doveva opporre creatività, espressività, dialettalità.

Pasolini intravede nel lungometraggio della Cavani il prodotto televisivo perfetto per un pubblico omologato, in particolare nei dialoghi di San Francesco si adotta l’italiano standard in nome della pura e semplice comunicatività, a discapito dell’espressività. La televisione è quindi il mezzo perfetto per compiere l’omologazione della società italiana, è il suo influsso a corrompere i comportamenti e le abitudini.

In passato era stata la religione a unire in un credo comune la nazione, da nord a sud era il cattolicesimo (seppur pregno di particolarismi e sfaccettature) a essere avvertito come unico dalla massa. La TV aveva soppiantato il ruolo egemone della fede, aveva proposto una lingua e dei modelli accattivanti, al passo con i tempi, che ammaliavano i telespettatori storditi dalla sinuosità del consumismo.

L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria).

Gli italiani dunque si avviavano verso un’autentica adorazione di un modello consumistico voluto e promulgato dal crescente bisogno di cambiare stili di vita, tradizioni, mentalità. E anche chi fa’ la televisione o vi partecipa è costretto a aderire a questa logica che pretende il rispetto di regole precise dalle quali non si può cercare di prescindere.

La televisione emana da sé qualcosa di spaventoso. Qualcosa di peggio del terrore che doveva dare, in altri secoli, solo l’idea dei tribunali speciali dell’inquisizione. C’è, nel profondo della cosiddetta “Tv” qualcosa di simile appunto allo spirito dell’Inquisizione: una divisione netta, radicale, fatta con l’accetta, tra coloro che possono passare e coloro che non possono passare: può passare solo chi è imbecille, ipocrita, capace di dire frasi e parole che sono puro suono; oppure chi sa tacere oppure tacere al momento opportuno. Chi non è capace di questi silenzi, non passa. Ed è in questo che la televisione compie la discriminazione neocapitalistica tra buoni e cattivi. Qui è la vergogna che essa deve coprire, creando una cortina di falsi “realismi”.

Pasolini ha studiato la televisione prima di scrivere i suoi pensieri a riguardo, ha visto anche i suoi colleghi prendere parte ad una tavola rotonda in cui si discuteva sulla «Libertà dello scrittore», gli intellettuali presenti rispondevano alle domande false del presentatore, considerato da Pasolini “un elemento” della televisione, messo lì a dirigere i miei poveri quattro amici che partecipavano alla tavola rotonda”. Naturalmente anche lui, essendo una persona che faceva televisione, non poteva esimersi dal rispettare le regole e infatti orchestra il dibattito in modo quasi teatrale e di sicuro artificioso agli occhi di Pasolini.

Quella faccia doveva garantire la libertà televisiva e italiana. La sua faccia era assolutoria. Egli sapeva, voleva, poteva la libertà. Non sapeva che qualcuno gli aveva messo addosso la maschera orrenda della sua faccia nera,la maschera della volgarità e della falsa idea di se stessi. Pareva non sapesse di avere addosso la maschera di questo personaggio ch’egli era. Spargeva sorrisi come perle, piegava le labbra in ironici sorrisi che miravano oltre la telecamera, predicando azioni di comportamento democratico. “Ognuno di voi” diceva ai quattro miei poveri amici “qui ha parlato liberamente.”

Quegli intellettuali non erano sconosciuti a Pasolini, tra loro figurava anche Carlo Bo. Quindi egli comprende il loro pensiero reale, il proprio punto di vista riguardo le domande del presentatore, ma comprende anche come loro siano costretti a tacere, ad evitare di esprimersi liberamente per evitare lo scandalo o quanto meno di essere allontanati dal video e dalla vita culturale del paese sempre più dipendente dal piccolo schermo.

E i miei poveri amici tacevano capite?, tacevano. Potevano sentirsi dire lì, in quella sede, che avevano goduto di piena libertà di parola? Essi avevano tacitamente accettato di tacere. Si autocensuravano. E sapevano benissimo a che punto dovevano fermarsi. Sapevano benissimo quali erano le cose che non dovevano dire, come bambini sorvegliati dal padre. E’ una magra consolazione sapere e dirsi che in un’altra nazione il rompere un analogo silenzio significa essere condannati. Il fatto che essi, parlando, non rischiano la Siberia, ma l’ostracismo della televisione, ossia una diminuzione di prestigio e popolarità. Dunque tacciono perché la televisione è potente. E’ potente fino a rappresentare ormai in Italia l’opinione pubblica (paese di analfabeti, e quindi paese dove non si leggono né libri né giornali).

Nel dibattito l’unico tentativo di resistenza fu di Alberto Moravia, il quale sembrò rispondere con una certa indolenza alle domande dell’intervistatore. Quegli interventi a Pasolini sembrarono comunque censurati, nel senso che anche Moravia, seppur consapevole della pretenziosità di quelle domande, ad un certo punto tacque sconfitto.

Perchè, allora, Moravia, a quel punto, ha taciuto? Perchè non ha continuato: Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che realmente pensa della sua nazione (vilipendio alla nazione) contemplato nell’art. Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che realmente pensa dell’esercito italiano (vilipendio all’esercito Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che realmente pensa della bandiera (vilipendio alla bandiera Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che realmente pensa della religione di Stato (vilipendio alla religione Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che realmente pensa a) della polizia italiana, b) e soprattutto, della magistratura italiana. Aggiungo: nessuno scrittore italiano osa veramente scrivere ciò che pensa della televisione italiana. […] gli scrittori non lo fanno per paura di perdere lettori e piccoli privilegi (la televisione serve molto, naturalmente, per vendere i libri e per dare celebrità).

Successivamente Pasolini rivolge l’attenzione ad un’altra categoria di persone che entrò nella televisione per accrescere la loro importanza agli occhi dei cittadini; la loro posizione li portò a piegarsi alla logica della TV pur di apparire . La categoria in questione è quella dei politici.

Una volta che la televisione era diventata realmente uno strumento di comunicazione di massa, la politica cercò di sfruttarla a suo favore, per accattivarsi le simpatie degli elettori. Il risultato di questa operazione fu per Pasolini alquanto grottesca poiché anche loro dovettero, come avevano fatto gli intellettuali, rifiutare al loro individualismo a discapito dell’uniformità del piccolo schermo.

Io, da telespettatore, ho visto sfilare in quel video un’infinità di personaggi: la corte dei miracoli d’Italia e si tratta di uomini politici di primo piano, di persone di importanza assolutamente primaria nell’industria e nella cultura. Ebbene, la televisione faceva e fa , di tutti loro, dei buffoni. Il video è una terribile gabbia che tiene prigioniera dell’Opinione Pubblica – servilmente servita per ottenere il totale servilismo – l’intera classe dirigente italiana: la ciocca bianca di Moro, la gamba corta di Fanfani, il naso alto di Rumor sono uno spettacolo rappresentativo tendente a spogliare l’umanità di ogni umanità.

Pasolini pensa alla TV come uno strumento dal potere mille volte più influente di ogni altro sistema; del resto s’insinua nelle menti delle persone in modo subdolo, non lasciando spazio alle proprie convinzioni. Il motore consumistico che muove tale strumento di comunicazione infatti tende a omologare il pensiero dei telespettatori, creando una realtà artificiosa parallela in cui essi si possono perdere e distrarsi tralasciando tutto ciò che invece avviene. In televisione tutto viene presentato come dentro un involucro protettore, col distacco e il tono didascalico con cui si discute di qualcosa già accaduta, da poco magari, ma accaduta, che l’occhio del saggio contempla nella sua rassicurante oggettività.

E’ insomma, sempre, una mente ordinatrice dall’alto, che presentando le informazioni, e riassumendo i messaggi, opera la selezione delle notizie (e dà quindi un quadro diverso dellTtalia). A livello naturalmente bassissimo. La televisione attua un potere simile a quello della propaganda fascista, tende cioè a proporre fatti manipolati, che non turbano l’opinione pubblica, aboliscono ogni pensiero individuale e dissonante. Il suo scopo è quello di controllare senza sollevare dubbi o obiezioni.

In realtà nulla divide i “comunicati” della televisione da quelli dell’analoga comunicazione radiofonica fascista. L’importante è una cosa sola: che non trapeli nulla di mai di men che rassicurante. La televisione, della vita pubblica, delle vicende politiche e della elaborazione delle idee, deve operare una selettività di scelta e una serie di norme linguistiche, che assicuri innanzi tutto che “tutto va bene” ed è fatto per il bene. Il bene non deve avere difficoltà: ed ecco che infatti il mondo presentato dalla televisione è senza difficoltà.

L’ideale piccolo-borghese di vita tranquilla e perbene si proietta come una specie di Furia implacabile in tutti i programmi televisivi e in ogni piega di essi. Tutto ciò esclude i telespettatori da ogni partecipazione politica – come al tempo fascista: c’è chi pensa per loro, e si tratta di uomini senza macchia, senza paura, e senza difficoltà neanche casuali e corporee.