Pasolini e la nascita della lingua italiana “tecnologica”

Pasolini fotografato da Dino Pedriali
Pasolini fotografato da Dino Pedriali

“L’italiano è sempre stato una lingua letteraria […] con l’unità nazionale tale lingua letteraria […] è divenuta la lingua dei rapporti nazionali, è divenuta la lingua media della nazione. Ma non è mai stata una vera e propria lingua nazionale […] essa è stata semplicemente della borghesia. Cioè la lingua di una classe che la usava per i propri interessi economico-politici e per i propri pretesti culturali […] imponendola dall’alto alle altre culture sociali, come una lingua straniera. […] e i mezzi di diffusione, oltre alla scuola umanistica e piccolo-borghese (1), sono state le infrastrutture di base, l’esercito, la ferrovia, i giornali ecc. Il latino era sempre stato il grande modello della lingua: ora tale modello era “borghesizzato” attraverso lo spirito burocratico-statale”.


La constatazione di Pasolini è evidente: l’Italia non possedeva una vera lingua nazionale, il popolo continuava a parlare i dialetti, e l’italiano promosso dall’apparato burocratico-statale rappresentava un modo di esprimersi di circostanza, riservato a chi viveva quella realtà. Non era dunque un italiano avvertito come lingua propria dall’intera penisola.

La svolta, che per Pasolini sancisce l’autentica nascita dell’italiano come lingua nazionale, è stata promossa dal potere abnorme che aveva acquisito il processo d’industrializzazione avvenuto nel nord d’Italia. E’ grazie al ruolo dei nuovi mezzi di produzione e diffusione della cultura di massa che la lingua finiva col diventare patrimonio di tutti. Continua Pasolini: 

“L’italiano come lingua nazionale comincia a esistere in questi anni. Che cosa è successo? Che la borghesia dominante, attraverso la completa industrializzazione del Nord, attraverso un nuovo tipo di rapporti (neocolonialistici) con il Sud, attraverso un ingigantimento dei mezzi di produzione e di diffusione della “cultura del potere” (televisione soprattutto), attraverso quel nuovo tipo di urbanesimo che è l’emigrazione interna. […] E poiché tale salto di qualità coincide – con l’evoluzione neocapitalistica verso la tecnocrazia – e linguisticamente, verso la lingua tecnologica – si ha in Italia una vera e propria rivoluzione sociale.”

Questa lingua nazionale: l’italiano tecnologico è il risultato dell’imponente fenomeno di industrializzazione del Nord, che diede il via alla rivoluzione del boom economico. Pasolini si interessò della questione linguistica italiana in una raccolta di saggi pubblicata nel 1972 con il titolo “Empirismo eretico”.

Il volume racchiude gli scritti redatti dal 1964 e rappresenta un approccio più polemico, provocatorio, estremo di Pasolini verso il proprio tempo e i veloci mutamenti che lo caratterizzano. L’analisi che l’autore compie della società consiste in una denuncia alla mutazione antropologica in corso. 

Anche la politica era stata attaccata dal nuovo modello linguistico, su questo fenomeno Pasolini non ha dubbi: “Tutti i vari tipi di linguaggio dell’italiano, ne sono modificati e uniformati. per esempio il linguaggio dei politici ufficiali, ha perso il prevalente riferimento al latino e al classicismo enfatico, e lo sostituisce con un riferimento all’efficienza comunicativa della lingua e della tecnica.”

Per quanto riguarda tale questione Pasolini presenta l’esempio di uno dei discorsi del primo ministro dell’epoca  Aldo Moro: 

“La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre  gli sperperi della concorrenza tra i diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala  nazionale.”  

In esso emergono diversi elementi linguistici che delineano il mutamento di espressività in atto; viene perfettamente delineato così l’italiano tecnologico.

Il discorso, trasmesso in televisione per l’occasione, fa riferimento all’inaugurazione dell’Autostrada del Sole (4 ottobre 1964). Ciò che è evidente secondo Pasolini è il destinatario del discorso: non si tratta infatti di tecnici o addetti ai lavori di progettazione o costruzione bensì del “pubblico normale, trasmesso per televisione a un numero di italiani di tutte le condizioni, le culture, i livelli, le regioni.”

In parole povere Moro ha strumentalizzato l’inaugurazione dell’autostrada per fare un appello politico agli italiani, raccontando loro un fatto politicamente assai delicato: quello di cooperare al superamento della congiuntura: cooperare idealmente e praticamente, essere, cioè, disposti ad affrontare dei sacrifici personali.”

Se comparato a un discorso di Giolitti agli elettori del collegio di Dronero, Busca, nel 1899 emergono le differenze: 

“[…] La via della reazione sarebbe fatale alle nostre istituzioni, appunto perché le porrebbe al servizio degli interessi di una esigua minoranza, e spingerebbe contro di esse le forze più vive e irresistibili della società moderna, cioè l’interesse delle classi più numerose e il sentimento degli uomini più colti. Esclusa la convenienza, anzi la possibilità, di un programma reazionario, resta come unica via, per scongiurare i pericoli della situazione attuale, il programma liberale, che si propone di togliere, per quanto è possibile, le cause del malcontento, con un profondo e radicale mutamento di indirizzo tanto nei metodi di governo, quanto nella legislazione. I metodi di governo hanno capitale importanza, perché a poco giovano le ottime leggi se sono male applicate. […] Nel campo politico poi vi è un punto essenziale, e di vera attualità, nel quale i metodi di governo hanno urgente bisogno di essere mutati. Da noi si confonde la forza del governo con la violenza, e si considera governo forte quello che al primo stormire di fronda proclama lo stato d’assedio, sospende la giustizia ordinaria, istituisce tribunali militari e calpesta tutte le franchigie costituzionali. Questa invece non è la forza, ma è debolezza della peggiore specie, debolezza giunta a tal punto da far perdere la visione esatta delle cose.”

Secondo Pasolini la politica ebbe sempre un ruolo nell’evoluzione della lingua italiana, ciò avvenne anche all’epoca di Giolitti “che aveva contestato e messo fuori gioco il classicismo agrario […] sostituendolo, attraverso un’azione dal basso non popolare, ma dei ceti medi, con un classicismo piccolo-borghese.” Il linguaggio politico quindi portava con sé tutti i sintomi del cambiamento, se fino ad allora era stato caratterizzato (come il linguaggio letterario) dall’osmosi col latino, ora tale fenomeno fu sostituito “dall’osmosi col linguaggio tecnologico della civiltà altamente industrializzata.”(2)

L’industrializzazione del Nord ha quindi partorito una classe sociale egemonica che ha il potere unificatore e questo potere veniva esercitato in primo luogo sulla lingua. Se fino ad allora era stata considerata Roma centro irradiatore della lingua, infatti “la civiltà neorealistica aveva avuto come lingua l’italo-romanesco”(3), i centri irradiatori di cultura erano diventate le città del Nord, i particolar modo l’asse Torino-Milano, le due città che avevano conosciuto uno sviluppo dell’industria senza precedenti. La spinta unificatrice non riguardò soltanto la lingua della politica, ma anche i giornali, la televisione e la pubblicità.

Pasolini si occupa anche di questi altri veicoli d’irradiazione linguistica, non solo in Empirismo eretico, anche in altri scritti spicca la sua visione della realtà che stava vivendo l’Italia del suo tempo.

Per quanto riguarda la pubblicità, secondo Pasolini il principio omologatore è la tecnologia e quindi la prevalenza assoluta della comunicazione: sicché lo slogan è l’esempio di un tipo finora sconosciuto di <<espressività>>. E’ attraverso la ripetizione che la sua espressività che diventa comunicativa. Tanto che anche il modo di pronunciarla possiede una allusività di tipo nuovo: che si potrebbe definire, con una definizione “monstrum”: espressività di massa.

Il linguaggio televisivo predilige, come la pubblicità, la comunicazione rispetto all’espressività, infatti scrive Pasolini: “Per quel che riguarda, inoltre, il linguaggio televisivo pare aver accantonato la sua funzione didascalica in direzione di un bell’italiano, grammaticalmente puro fino a un fondamentale purismo: ora la funzione didascalica della televisione pare orientarsi verso una normatività di grammatica e di lessico non più purista ma strumentale.” Pasolini evidenzia anche un altro aspetto della televisione, nota la natura monotona dei comunicati giornalistici televisivi: 

“La monotonia dei diagrammi delle proposizioni di quel tipico campione televisivo che è il dettato del telegiornale. Essa non parrebbe neanche italiano. […] pare di sentire un annunciatore francese o cecoslovacco. […] le persone di infima cultura credono che l’italiano vada parlato così, attraverso una serie di proposizioni dal diagramma possibilmente unificato anche nella pronuncia.”

Il linguaggio del giornalismo è stato anch’esso investito di rilevanti caratteri specialistici, e anche il giornalista che si accinge a scrivere un articolo è costretto ad abbandonare l’espressività per lasciar spazio a un’alta dose di comunicazione. Infatti Pasolini puntualizza: 

“[…] un giornalista può inventare solo dentro un sistema restrittissimo, e ogni sua invenzione non deve essere però scandalizzante: deve essere collaudata e comunque prefigurata secondo una statistica della richiesta della massa. […] un articolo giornalistico caratterizzato da espressività viene cestinato perchè il lettore medio provvederebbe da sé a ignorarlo.”

Note:

(1 – 2 – 3) Giulio Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo, Bruno Mondadori, Milano 2005