Il miracolo economico italiano (1952-1963)

cucina_anni50Agli inizi del 1950 l’Italia era ancora un paese sostanzialmente sottosviluppato. L’agricoltura continuava a rappresentare il più importante settore di occupazione, nel 1951 il 42,2% della popolazione azione lavorativa rientrava nella categoria -agricoltura, caccia e pesca-. Meno del dieci per cento delle case italiane, nel 1951, possedeva acqua potabile, elettricità e servizi igienici interni. Le industrie, tutte concentrate a nord della penisola, mostravano i primi segni di sviluppo nei settori dell’automobile, dell’acciaio e dell’energia elettrica e le strutture delle emigrazioni erano le medesime del primo dopoguerra, anche se diminuisce il numero di italiani che parte in direzione di paesi extraeuropei (es. Argentina) per recarsi invece in Europa o nelle regioni settentrionali della stessa Italia.

Il cambiamento più intenso per il sistema economico italiano entra nel vivo tra il 1952 e 1953. In questi due anni, infatti, il reddito nazionale raddoppia. Grazie a un’importante crescita dell’occupazione, soprattutto nelle piccole medie imprese, la struttura economica del paese iniziò a favorire lo sviluppo di questi settori a discapito di quello agricolo e del terziario, che fino allora erano stati i più caratterizzanti del sistema italiano.

Aumentarono i servizi commerciali e l’offerta di manodopera. Un elevatissimo numero di lavoratori provenienti dall’Italia meridionale invase le industrie del nord (principalmente del triangolo Milano, Torino, Genova) pronti per lavorare; il prezzo basso di questa manodopera fu anch’esso un elemento importante per lo sviluppo sempre crescente del boom economico.

In Lombardia il numero degli operai dell’industria aumentò di 200000 unità e gli emigranti provenienti dalle regioni del sud, alla fine degli anni Cinquanta, riuscì a trovare il loro primo impiego, ad esempio a Torino, attraverso le <<cooperative>>. A capo di queste c’erano molto spesso capetti di origine meridionale che rifornivano di mano d’opera a basso costo le industrie in cambio di cospicue tangenti.

Questo fenomeno porterà migliaia di italiani a lasciare il loro paese d’origine, i paesi in cui le loro famiglie avevano vissuto per generazioni, abbandonarono il mondo immutabile dell’Italia contadina e iniziarono nuove vite nelle dinamiche città dell’Italia industrializzata.”

È interessante considerare questo spostamento di massa come un cambiamento cruciale per l’assetto sociale meridionale, un equilibrio che fino allora non era mai stato colpito così duramente, neanche l’esperienza della Grande Guerra aveva così sradicato così tante famiglie alle loro tradizioni e alle loro terre.

Paul Ginsborg trascrive in Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi Scuola, Milano 1996 l’esperienza di uno dei tanti italiani che emigrò dal sud al nord d’Italia; la sua vicenda è molto precisa nel descrivere ciò che provavano queste persone in qui dinamici anni Cinquanta, scrive Ginsborg: “Antonio Antonuzzo, nato nel 1938, era il secondo dei cinque figli d’una famiglia contadina di Bronte, un paese della Sicilia orientale. […] Successivamente, nel 1950, quando Antonio aveva dodici anni, l’intera famiglia emigrò a Montino, vicino a Massa Marittima in Toscana. Tre proprietari terrieri di Bronte avevano acquistato lì una tenuta, promettendo ai contadini che li avessero seguiti dalla Sicilia di vendere loro quella terra, che essi assicuravano fertile, suddivisa in piccoli poderi. […] Il 28 settembre 1950 la famiglia Antonuzzo e quella dello zio di Antonio partirono per la Toscana, ventuno persone in tutto. Antonio ricorda che alla stazione di Grosseto «La gente si fermava a guardarci… non con commiserazione, indifferenza, ma con disprezzo verso la nostra carovana con l’aspetto di zingari». Il trasferimento a Montino si rivelò un assoluto disastro. La terra era arida e i cinque ettari che la famiglia di Antonio riuscì a comprare erano prevalentemente di terreno boscoso. Gli Antonuzzo divennero praticamente indigenti e sbarcarono il lunario come carbonai. Appena fu grande abbastanza, Antonio andò a lavorare nelle miniere di Massa. Nello stesso periodo la famiglia, che aveva provato l’ostilità dei contadini toscani, tutti comunisti, decise di iscriversi alla Democrazia cristiana.» Nell’aprile 1962, dopo aver completato il servizio militare, Antonio Antonuzzo decise di abbandonare la campagna toscana e di spostarsi in una città del Nord. Si recò dapprima a Legnano, dove aveva dei cugini, poi, dopo poche settimane, a Milano. […] Grazie a una lettera di raccomandazione della Democrazia cristiana di Massa, Antonio trovò presto lavoro nello stabilimento della Coca Cola a piazza Precotto. Dopo dodici giorni si licenziò. Subito dopo, sempre con l’aiuto della Dc, trovò un lavoro migliore all’Alfa Romeo. Alla fine del 1962, con i pochi risparmi che aveva, Antonio chiamò la famiglia da Montino a Milano, sistemandola in un appartamento di due stanze, trovato in piazza Lega Lombarda. […] Per i cinque anni successivi Antonio rimase all’Alfa Romeo, diventando uno dei militanti più in vista della fabbrica. Poi se ne andò ed entrò nella Cisl come sindacalista a tempo pieno.”

Gli anni cruciali del “decollo” o “miracolo”, intesi come palcoscenico di svolte sul piano industriale, economico e sociale, sono quindi quelli che vanno dalla seconda metà degli anni 50 agli inizi dei sessanta. In questi anni l’imprenditoria italiana si sforzò di adottare una nuova mentalità: si allontanò dal produrre determinati beni esclusivamente per una minoranza e altri per una maggioranza, concentrandosi invece sulla fabbricazione e (soprattutto) sulla loro pubblicizzazione in modo che tutti, operai e medici, avvocati e impiegati, potessero acquistarle o aspirare ad acquistarle.

Il tradizionale attrito nel rapporto tra operaio e padrone si evolveva in un nuovo punto di vista.  Il capo considerava ora l’operaio come un consumatore e, anziché accentuare la diversità, iniziava a pensare come lui, a sentire come lui. L’operaio dal canto suo scindeva il ruolo di dipendente con quello di consumatore e i due ruoli incrociati generavano un output comune col padrone: produrre di più, guadagnare di più, abbassare i prezzi, comprare di più. Il caso della vettura: “Nuova 500” è quello più clamoroso, il simbolo del bene di consumo per tutti, alla portata di qualsiasi italiano e non a caso è diventato l’emblema della nuova Italia che si godeva gli anni della ricchezza.

Entrata nelle catene di montaggio Fiat nel 1957, l’utilitaria voluta da Vittorio Valletta e disegnata dall’ingegnere Dante Giacosa, si avvaleva di una sponsorizzazione senza precedenti, che non aveva cioè eguali rispetto ai vecchi modelli d’élite come la “Topolino” del 1936. Inoltre a differenza della Fiat 600, che era stata messa in vendita e aveva raggiunto un enorme successo, la “Nuova 500” aveva un prezzo realmente accessibile.

In uno degli spot questa vettura la voce narrante sottolinea come essa risponda alle esigenze di un medico, di un operaio, o di una casalinga; infatti i protagonisti della pubblicità enfatizzano i comfort dell’automobile, ponendo l’accento sulla sua agilità nel traffico, la capienza del bagagliaio ecc. Agli occhi dell’italiano medio quello della “Nuova 500” rappresentò un “lusso” alla sua portata, che era in grado cioè di acquistare senza problemi, anche grazie alla possibilità di spalmare la cifra (non a caso di cinquecentomila lire) in una serie di rate stabilite all’atto di acquisto.

Il sistema rateale quindi fu lo strumento che diede lo stimolo all’acquisto, favorendo anche strati della popolazione fino allora esclusi dall’acquisto di beni di tale portata. Il fenomeno delle migrazioni interne alla penisola si amplificò portando un elevato numero di persone originarie del sud a spostarsi fisicamente per lavorare al nord.

I nuovi prodotti del benessere emersero con tutto il loro fascino e sono proprio loro che tutt’oggi rappresentano in maniera eloquente la situazione economica di quegli anni. Oltre alle automobili il mercato degli elettrodomestici sembrò inarrestabile: televisori, lavatrici, divennero in poco tempo strumenti indispensabili nelle case degli italiani.