Come un truffatore che pensa di aver fregato un babbeo

Rimettersi a suonare la chitarra a 27 anni, dopo che l’avevi sepolta in garage tra addobbi natalizi e ombrelloni ripiegati non è una bella sensazione. Specie dopo che avevi detto a tutti che con la musica, serate, impianti, scalette e accordi non volevi più cimentarti. Lì per lì è stata una bella sensazione: smettere con il rock in garage significava fare un grande passo verso la maturità (mondo del lavoro, soldi, impegni e responsabilità). 

E invece eccoti, a cedere alle proposte di un tuo amico che ti invita a suonare con lui “chitarra e voce e stop” per mettere in tasca un biglietto da 50 euro a testa “Mica due soldi” e esibirti in bar e locali di paese frequentati da “Tanto vogliono solo ascoltare il sottofondo mentre bevono l’aperitivo”. 

Mica male, penso, e subito faccio un paio di calcoli al volo: se guadagno 30 euro per 7 ore, 50 in due ore e mezzo è una specie di sogno americano. E ci sto.

Per una settimana suoniamo dentro il garage-cantina, pieno di bottiglie e barattoli di salsa, tra bici e scatoloni. Io porto con me la chitarra acustica, col manico mezzo rotto, lui si presenta con un quaderno di scuola con decine di fogli pieni zeppi di testi e accordi. 

Attacchiamo subito con i pezzi più facili: un paio degli Oasis, uno dei Beatles e troviamo pure lo spazio per Neil Young. Io seguo gli accordi stampati sui fogli come un boy-scout si fida dei LA, SOL, DO e RE sui versi dei brani cantati in chiesa, ma le mie dita sono arrugginite (più delle corde del 2007). Facciamo schifo, io sbaglio note, manco i tasti e lui urla talmente tanto che per far sentire la mia chitarra sono costretto a menare. Alla fine usciamo a fumare una sigaretta.

“Possiamo provare quelle che abbiamo scritto noi” mi dice, ma anche faccio fatica a ricordare, come quelle poesie imparate a memoria a scuola che poi dimentichi subito dopo l’interrogazione.

Suoniamo e proviamo come due disperati. Al settimo giorno finalmente abbiamo allestito una discreta scaletta. Resta il problema dell’amplificazione. Ritrovo allora un vecchio pick-up sfasciato e lo posiziono sul buco della chitarra con lo scotch nero per elettricisti, il jack che penzola fino a toccare il pavimento. Durante l’ultima prova ci esaltiamo: sparo Come Together e No Fun   schiacciando il tasto distorsore sull’amplificatore da 10 watt. Fuoriesce un suono talmente fastidioso che lasciamo perdere subito, meglio chitarra al naturale e basta.

Allora ci rechiamo al primo locale per chiedere di suonare, io non entro e mi accendo una sigaretta, il mio amico invece va dritto verso il titolare.
Mentre fumo sotto al sole noto un pannello 4 metri per 4 con i faccioni dei Beatles in stile pop art incollato ad una parete del locale, affianco una quarantina di copie diverse di Rolling Stone appese tipo quadri appesi al muro. “Suoniamo Beatles, Pink Floyd ecc ecc” dice il mio amico al tizio tatuato e stralunato, lui sembra interessato e quando sente il prezzo (50 euro per due) decide di fissarci la data. Avremmo dovuto suonare il giorno dopo alle 22.30.
Ce ne torniamo a casa contenti, come due truffatori che pensano di aver fregato un babbeo. 

Il giorno successivo, in garage, suoniamo daccapo tutte le canzoni della scaletta, in tutto 20, e ci siamo talmente rotti il cazzo di suonarle che decidiamo di averle imparate a dovere, è in quell’istante che capisco di non avere più 18 anni. 
Ci presentiamo al locale alle 20.00 per sistemare un paio di casse, di sgabelli, il microfono e leggio. Il tizio del locale ci aiuta a spostare un enorme pannello con una pianta rampicante e noi, dopo aver impiegato mezz’ora a capire come montare il leggio, lasciamo tutto e ce ne andiamo.
Alle 22.30 siamo lì, ci raggiungono un paio di amici. Il locale è relativamente pieno di ragazzine  di 14 anni mezze nude che scorrazzano davanti al bancone. Io ho 27 anni e il mio amico 25. Il tizio stralunato dice di pazientare, noi prendiamo un the e un amaro. Alle 23.40 attacchiamo. Hey Hey My My suona liscia, applaudono solo i nostri amici. Don’t Let Me down suona così così, il mio amico sbaglia l’attacco del ritornello. Ci metto l’anima per suonare Cocaine, con le corde nuove appena tirate, applaudono solo i nostri amici. Suoniamo allora Wish you were here. Sentiamo di aver rotto il ghiaccio e allora tentiamo con due o tre pezzi nostri. Io non stacco gli occhi dai fogli con gli accordi buttati sul tavolo di fronte e bloccati con una lattina e il cellulare. Intorno a mezzanotte e un quarto si avvicina il tizio del bar, scosta una pianta e vedo la sua testa spuntare tra il microfono e l’amplificatore. “Sentite, forse non ci siamo capiti ieri, credevo che suonavate un altro tipo di musica, queste canzoni mi stanno facendo cadere le palle” io lo guardo, lui mi guarda. “Giusto” gli dico. “Suonate l’ultimo pezzo e andatevene”, “Giusto”. 
L’ultimo pezzo. Suona come una resa incondizionata. Addirittura alza il volume dello stereo al piano di sopra, musica house, per le ragazzine di 14 anni che continuano a scorrazzare e che vogliono “Il sottofondo mentre bevono l’aperitivo”. 
A quel punto attacchiamo con Have you ever senn the rain. La suono come se fosse l’ultima  cosa che avrei fatto su questa terra. Davanti a noi due un ragazzo claudicante e ubriaco si agita e batte le mani. Siamo io, il mio amico e questo ragazzo che danza, come impossessato da un demone antico sulle note di Have you ever seen the rain. Allora penso a Woodstock e a un vecchio documentario che vidi a casa di un mio compagno di scuola: in quel 1969 tutto quel circo doveva avere quell’effetto. Finiamo e smontiamo. Il tizio stralunato del bar ci consegna il foglio verde SIAE da compilare, ci scrivo quattro titoli di canzoni che non abbiamo suonato.
Glielo riconsegno e lui tira fuori dalla tasca due banconote (ci ha dato 20 euro). Il mio amico mi da i soldi e io meccanicamente li infilo nel jeans (ci ha dato 20 euro vaffanculo). Prendo la chitarra e mi incammino verso la Vespa, metto la mano in tasca (ci ha dato 20 euro è l’ultima volta che suono in vita mia) e guardo il numero illuminato da un lampione seminascosti da un pino marittimo. “Cazzo ma sono 50 euro!” dico esterrefatto. Come un truffatore che pensa di aver fregato un babbeo.