RACCONTO. CRONACHE PENDOLARI. Il coraggio a metà

Ci hanno dato un sacco di legnate in testa per essere così come siamo. Sotto una pensilina improvvisata aspettiamo pullman come traghetti infernali e il tempo lo freghiamo meglio fissando le crepe egli strati dell’asfalto. 
All’improvviso scendono tre adolescenti dal predellino di un bestione arancione fuligginoso  schiamazzando, si spingono, ridono, impugnano i loro telefoni che sono prolungamento del loro corpo, modernità.  Siamo circa una ventina di anime, ma si sentono soltanto le loro tre voci e lo sferragliare delle auto che non finiscono mai.  
 Non hanno ancora iniziato le loro sedute di legnate in testa, hanno ancora un pugno di anni da bruciare. 

La differenza è evidente. Hanno sulle spalle appesi gli zaini, che poi sono come i nostri, ma che hanno gli occhi spalancati, rispetto a quella specie di sacchi del tutto ostili, che socchiudono lo sguardo, che ci pendono sulle spalle. Un tizio sui trent’anni mi chiede “Quando cazzo passa l’autobus per…”, e vedo che indossa un paio di scarpe ben foderate, invernali. 

Gli rispondo “tra cinque minuti”, e credo che la sua scelta di non bagnarsi i piedi sia dovuta alle legnate in testa. Le mie scarpe di tela bianche, ingrigite dalla pioggia e dalla cenere di sigarette, vogliono di sicuro morire, ma io sono come quel coglione inventato da Beckett che trascinava il suo galoppino al guinzaglio: non volevo lasciare andare via le mie scarpe nonostante la loro penosa messa in scena.

Torno che sono le tre e mezza di pomeriggio. Scendo dal pullman in fila indiana dietro una ragazza, “Come cazzo guida questo” sussurra riferendosi all’autista e forse ha ragione.
Appena sceso mi dirigo al tabacchi per comprare le sigarette. Dopo mi incammino verso il bar e bevo un caffè bollente che mi scende veloce nello stomaco. Ci fumo su. Al bar trovo tre amici che stanno sperando di cambiare la settimana infilando banconote alla slot machine. Non male, la fortuna non chiama mai. Quello più ferrato, Gianluca si chiama, infila cinquanta euro della nonna ma senza ingolosire la fortuna, esce dalla saletta frastornato e incazzato, col portafogli sgonfio. 

Ha ragione quando dice che la giornata è storta, del resto mi lascio trascinare e sparo una trentina di euro, divorati anch’essi dalla mala sorte. Fumiamo all’esterno del bar con lo sferragliare delle auto che non finirà prima delle nove di sera. 

Fabio dice di essere stato all’ufficio di collocamento e di aver visto una ragazza “Una cosa pazzesca, ma troppo tirata”, mima persino le sue labbra a culo di gallina. Maledice poi sua zia perché gli ricorda di tentare il concorso della Guardia Forestale, “truccato” secondo lui.

Mentre cerca di elencarmi le differenze tra le opportunità di lavoro negli anni ’80 e di oggi, Gianluca è di nuovo sgattaiolato dentro alla saletta pronto per scaricare il suo caricatore, una volta per tutte, tanto che mi ricorda quei soldati giapponesi che morivano di proposito, pur di portare a termine la loro missione. Mi hanno sempre affascinato gli atti di eroismo autodistruttivo: se sei un eroe è perché sostanzialmente te ne freghi della vita. 

Se Gianluca è un eroe è perché se ne frega dei soldi, anche se passano cinque minuti e torna in strada con la faccia di chi ha ceduto a un impulso. Il suo eroismo si rivela incompiuto, non vale nemmeno due righe di encomio su un giornale del cazzo. Si lascia un paio di euro per comprare le sigarette, segno che ci teneva a vincere, ma non troppo, altrimenti senza fumare sarebbe impazzito. Ci salutiamo.