Pascoli e la nebbia. “Era un gran mare piano, grigio, senz’onde…”

La nebbia per Giovanni Pascoli costituisce un elemento della natura che ben si presta alla sua personale visione del mondo e della vita.  In due componimenti, Nella Nebbia e Nebbia, il poeta ricorre a questo fenomeno meteorologico suggestivo per trattare la condizione dell’uomo e di se stesso, utilizzandola prima come mare che sommerge tutto, poi come un mezzo per celare tutto ciò che non vorrebbe nella sua vita.

***

Il componimento Nella nebbia, contenuta nei Primi Poemetti, è caratterizzato da un’atmosfera inquietante e misteriosa. Enigmatico è il paesaggio ricoperto da quel manto impenetrabile e altrettanto enigmatica è la figura del viandante, di cui il poeta riconosce pochi dettagli, tra cui il rumore dei passi. Il viandante diventa così simbolo dell’uomo e della sua solitudine nel mondo, accompagnata dalla fatica dell’esistenza.

Per certi versi questa poesia può essere accostata al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi, che è accostabile se si considerano le tematiche, ma profondamente diverse se si pensa all’atmosfera dei due componimenti.

Se per Leopardi il pastore vaga in un ambiente ben delineato e preciso nei dettagli, Pascoli amplifica lo smarrimento dell’uomo immergendolo in un paesaggio ambiguo, rarefatto, allusivo.

Per Pascoli il fenomeno metereologico della nebbia è paragonabile al mare aperto, che sommerge tutto ciò che incontra e che appare un’unica, grande distesa infinita (senza lidi) e senza vita (senza onde).

La poesia si apre, nella prima terzina, proprio con questa metafora, che suggerisce un panorama indistinto, in cui è impossibile distinguere ciò che è coperto dalla nebbia.

E guardai nella valle: era sparito

tutto! sommerso! Era un gran mare piano,

grigio, senz’onde, senza lidi, unito.

Le prime quattro terzine della poesia iniziano tutte con una congiunzione copulativa, una scelta non casuale, che serve al poeta per comunicare le sue impressioni che emergono dall’uniformità inquietante che ha davanti agli occhi. Il ritmo di Nella nebbia è volutamente cantilenante, grazie all’utilizzo di terzine dantesche (ABA, BCB, CDC).

Ciò che percepisce inizialmente sono i flebili versi degli uccelli, che non riesce a vedere, dato quell’unica massa ovattata.

L’impressione è suggerita dalle /i/ che rendono la sensazione di sottigliezza dei suoni, appena distinti:

voc(ì)o d(i) gr(i)d(i) p(i)ccol(i) e selvagg(i)

Dall’udito il poeta passa alla vista. Nonostante la condizione della valle, immersa dalla nebbia, egli riesce a scorgere degli alberi, dei faggi, che appaiono come sospesi; immagine suggerita mediante l’utilizzo ravvicinato di sibilanti /s/.

E alto, in cielo, (s)cheletri di faggi,

come (s)o(s)pe(s)i, e (s)ogni di rovine

e di (s)ilenzïo(s)i eremitaggi.

Nella nebbia anche gli edifici appaiono in maniera diversa: sembrano emergere non nella loro interezza, ma a pezzi, come se fossero elementi fantastici o appartenenti a miraggi.

Subito dopo torna a concentrarsi sui suoni: sente un cane uggiolare, cioè lamentarsi. Tale azione (riferita al cane) è utilizzata in diversi componimenti.

Nella quinta strofa Pascoli utilizza la paronomasia a rime interne, accostando due parole dal suono molto simile ma con significato diverso:

Sente il rumore di passi, da qualche parte, nella nebbia e cerca di capire la loro provenienza:

eco di (péste) né tarde né (preste),

(alterne), (eterne). E io laggiù guardai:

nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.

L’uso della paronomasia a rime interne è un mezzo attraverso il quale il poeta vuole riprodurre il suono dei passi, anche loro come gli alberi sospesi nell’atmosfera rarefatta dell’ambiente.

Nella sesta strofa compare la figura del viandante, altro soggetto del componimento. Della sua presenza il poeta avverte solo il rumore di passi indecifrabili; non riesce a vederlo eppure è certo della sua presenza.

Io, forse, un’ombra vidi, un’ombra errante

con sopra il capo un largo fascio. Vidi,

e più non vidi, nello stesso istante.

Quando riesce a vederlo il suo sguardo cattura un dettaglio che costituisce la sagoma dell’uomo: un fascio sul capo. Questa indicazione rimanda alla leggenda che vedeva nelle macchia lunari Caino portare sul capo un fascio di spine, seguito dal suo cane. Il riferimento è presente anche nell’inferno di Dante, al canto XX e al secondo canto del Paradiso:

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine

d’amendue li emisperi e tocca l’onda

sotto Sobilia Caino e le spine;

(Inf. XX vv.123-126)

Ma ditemi: che son li segni bui

di questo corpo, che là giuso in terra

fan di Cain favoleggiare altrui?

(Par.II vv. 49-51)

Pascoli riprende questa immagine e la inserisce nella poesia, citando anche il cane, che uggiola sia prima che dopo l’apparizione del misterioso viandante. La figura dell’homo viator è usata dal poeta come simbolo del nomadismo universale, dell’uomo che compie un viaggio dalla vita alla morte attraverso un percorso doloroso e accidentato, alla ricerca di una meta inesistente che porta al nulla.

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La nebbia è protagonista anche di un’altra poesia di Pascoli, contenuta nei Canti di Castelvecchio, intitolata semplicemente Nebbia.

A differenza di Nella nebbia questa volta il fenomeno naturale si fonde a tematiche biografiche e esistenziali che riguardano da vicino il poeta, che vuole esprimere le sue necessità, imprescindibili per la sua vita.

da una parte lo spazio ben definito del ‘nido’ pascolano, con gli elementi familiari che lo circondano e lo compongono nel presente (Nava), e dall’altra tutto ciò che è ignoto o ‘morto’, cioè appartenente al passato, o che deve essere represso e  che non deve tornare.

Pascoli invoca la nebbia, non più elemento della natura che copre il paesaggio, facendo solo echeggiare suoni indistinti e frammenti di edifici, ma entità capace di sommergere tutto ciò che della vita non deve esistere   (sofferenze, angosce).

Esorta la nebbia a ‘nascondere’ ciò che è ignoto, lontano, morto. L’insistenza nell’uso dell’imperativo Nascondi, ripetuto all’inizio di ogni strofa della poesia sottolinea la disperazione del poeta nel voler cancellare gli elementi che sono lontani dal ‘nido’.

La lontananza è delineata da una serie di elementi sparsi nella poesia: da cose che vanno tenute nascoste (vv. 1, 7, 13, 19 e 25), di cose morte (v. 8), che fanno piangere (v. 14), che «vogliono ch’ami e che vada» (v. 20). In sostanza tutto ciò che costringerebbe il poeta a uscire dal ‘nido’ famigliare, da quello spazio protettivo nel quale egli si sente di vivere, è considerato in maniera negativa.

Pascoli predilige ciò che gli è vicino e famigliare, presenze del suo IO: una siepe (v. 9) e un muro (v. 11), ue peschi e due meli (v. 15), una strada bianca (vv. 21-22), un cipresso (v. 27), un orto (v. 29) e un cane (v. 30).

Nell’ultima strofa l’utilizzo delle fricative labiodentali /v/ rendono l’effetto sfuggente di un qualcosa che Pascoli vorrebbe che volasse via, lontano dalle sue premure:

Nascondi le cose lontane,
nascondile, in(v)olale al (v)olo
del cuore!

Nel penultimo verso della poesia è condensato tutto il significato del componimento: attraverso l’uso della parola qui, completata da quest’orto insieme alla presenza del cane (animale caro a Pascoli) è chiarito alla perfezione lo spazio personale e intimo del poeta, che non vuole oltrepassare. Egli vorrebbe vivere solo nel suo spazio, senza la minaccia di ciò che è ignoto e che può essere fatale.

Ch’io veda il cipresso
là, solo,
(qui), quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

(vv. 27-30)

NELLA NEBBIA

E guardai nella valle: era sparito

tutto! sommerso! Era un gran mare piano,

grigio, senz’onde, senza lidi, unito.

E c’era appena, qua e là, lo strano

vocìo di gridi piccoli e selvaggi:

uccelli spersi per quel mondo vano.

E alto, in cielo, scheletri di faggi,

come sospesi, e sogni di rovine

e di silenzïosi eremitaggi.

Ed un cane uggiolava senza fine,

né seppi donde, forse a certe péste

che sentii, né lontane né vicine;

eco di péste né tarde né preste,

alterne, eterne. E io laggiù guardai:

nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.

Chiesero i sogni di rovine: – Mai

non giungerà? – Gli scheletri di piante

chiesero: – E tu chi sei, che sempre vai? –

Io, forse, un’ombra vidi, un’ombra errante

con sopra il capo un largo fascio. Vidi,

e più non vidi, nello stesso istante.

Sentii soltanto gl’inquïeti gridi

d’uccelli spersi, l’uggiolar del cane,

e, per il mar senz’onde e senza lidi,

le péste né vicine né lontane.

NEBBIA

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli,
d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valerïane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che danno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
Che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

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