Racconti olimpici. John Stephen Akhwari, invincibile

In “Temporale” Jovanotti canta l’invincibile non è quello che vince sempre, ma quello che anche se perde non è vinto mai. Una frase che si addice perfettamente a John Stephen Akhwari, maratoneta della Tanzania che alle Olimpiadi messicane del 1968 ha dato una lezione al mondo intero, dimostrando che un vero atleta è agile, forte, resistente, veloce, determinato, ma soprattutto… colui che non si arrende mai.
A Città del Messico, quel 20 ottobre del 1968, la maratona conclusiva dell’Olimpiade era finita con la premiazione allo stadio olimpico dell’etiope Mamo Wolde con 2h20’26″4, il giapponese Kenji Kimihara con 2h23’31″0 e il neozelandese Michael Ryan con 2h23’45″0.
Era tutto finito. Nessuno, delle migliaia di persone presenti alla manifestazione e di quelle sintonizzate in radio e Tv poteva mai immaginare che un maratoneta era ancora in corsa, completamente distrutto ma ancora in piedi, verso il traguardo. Il cielo era nero, come a voler suggerire la conclusione della festa.
Una sagoma barcollante, dolorante e sfinita camminava e si fermava, prendeva fiato e saltellando proseguiva. Per puro caso una troupe , altrimenti nessuno avrebbe diffuso al mondo intero la fase finale della sua incredibile gara.
Verso il 19° chilometro Akhwari era nel gruppo di testa ma un imprevisto mise a dura, anzi durissima, prova la sua prestazione: cadendo riportò una contusione alla spalla e una ferita al legamento del ginocchio destro. Tutto faceva presagire ritiro ma Akhwari non poteva ritirarsi.

Schermata 2016-03-26 alle 19.15.15“Il mio popolo non mi ha mandato a 5.000 miglia da casa per partire. Mi ha mandato a 5.000 miglia da casa per arrivare” dirà una volta diventato una leggenda.
Ma in quegli attimi Akhwari era un maratoneta infortunato, alle prese con dolori pazzeschi e con il sogno della medaglia irraggiungibile. Gli altri atleti in breve tempo diventarono puntini sempre più lontani, per poi sparire dalla sua vista.
Akhwari si fermò, si rialzò e lentamente ricominciò a correre. Con il numero 36 cucito sulla sua canotta gialla sembrava una solitaria pennellata di colore fluente nel caos della strada, tra i fanali delle auto e moto della polizia. Pochi spettatori ebbero la fortuna di vederlo dirigersi verso lo stadio. Qualcuno cercò di capire chi fosse quell’uomo barcollante, più forte del dolore, della delusione, più forte di tutto.
Arrivò in uno stadio semideserto Akhwari, camminando. Il tabellone era spento e fu riacceso in fretta e furia. Arrivò con 3h25’27”.

Il grande rischio
respinge un uomo codardo.
Destinati alla morte, a che nel buio
inerti smaltire invano una vecchiaia
senza nome, lontani dalla gloria?
Ora io a questa lotta
andrò; tu, dà amico l’evento”.
Disse così – ed a parole efficaci
ricorse. Onorandolo il dio
gli diede un cocchio d’oro e corsieri
instancabili d’ali.
(Pindaro, Olimpiche – Per Ierone di Siracusa con il cavallo montato)