Pasolini “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano”

La precaria coesistenza tra industrializzazione e miseria che Pasolini avverte a Roma già nei primi anni cinquanta si evolverà, in un disarmante cambio di mentalità da parte degli abitanti di quei quartieri, nel decennio successivo.

A partire pressappoco dai primi anni sessanta, infatti, il mercato dei consumi ha realmente investito la penisola italiana, non è più auspicato nei discorsi dei politici, nelle colonne dei giornali nazionali, è la realtà. Il processo di trasformazione delle culture particolari e marginali in una forma di cultura centrale che omologa tutto, è avvenuto pressoché contemporaneamente in tutta Italia.  Esso può contare sull’apporto di nuovi mezzi nati dalla motorizzazione, per quanto riguarda lo spostamento “fisico” dalla periferia al centro e dei nuovi strumenti della comunicazione, in primis la televisione, per l’annullamento di tradizioni isolate a favore di un’unica, imponente cultura di massa. Ogni strumento partorito dal “benessere economico” ha come potere assoluto quello di attrarre a se e quindi distruggere tutto ciò che c’è di particolare, unico, a Roma e nel resto dell’Italia.

E nelle borgate romane, che solo cinque anni prima questa intervista erano per Pasolini un mondo ancora salvo, che regolava la sua vita con antichi e solidi legami, adesso si sta sgretolando, perché anche i “borgatari”, storditi dal boom, iniziano a fare di tutto per averne anche solo una fetta.

Nel 1973 Pasolini esporrà, in un’intervista rilasciata per il Messaggero a Luigi Sommaruga, la sua presa di coscienza del fenomeno di trasformazione: «Prima gli uomini e le donne delle borgate non sentivano nessun complesso d’inferiorità per il fatto di non appartenere alla classe cosiddetta privilegiata. Sentivano l’ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell’agiato. Lo consideravano, anzi, quasi un essere inferiore, incapace d’aderire alla loro filosofia. Oggi, invece, sentono questo complesso d’inferiorità. Se osserva i giovani popolani vedrà che non cercano più di imporsi per quello che essi sono, ma cercano invece di mimetizzarsi nel modello dello studente, addirittura si mettono gli occhiali, anche se non ne hanno bisogno, per avere un’aria da “classe superiore”». 

Quindi queste persone avevano vissuto fino ad allora consapevoli del loro status e per nulla desiderosi di aspirare a una condizione migliore, del resto essi avevano ben salde le radici nel loro mondo, di periferia certo, ma comunque racchiuso tra la solida crosta delle baracche delle borgate.

Questa “ideologia” consisteva per Pasolini in una dissociazione: “di qua sono io, povero, che conosco il vero mondo, il mondo dei malandrini, dei dritti, della malavita, dell’amore, di là sei tu, ricco, poveretto, che del mondo non sai nulla, che sei un farlocco, buono per essere derubato, se capita. Accetto il dato di fatto che tu sia il mio padrone, ma come padrone ti ignoro, se vuoi ti considero un re, e ti servo, ma in realtà tu non esisti.”

Ma questa mentalità è destinata ad essere cancellata per sempre, e Pasolini, nel suo girovagare per Roma su tram e autobus, coglie immediatamente il cambiamento, che assume i toni del grottesco, specie da parte di quei “borgatari” che per lui erano stati fonte di speranze e resistenza per la nuova mentalità consumistica.

Li osservo, questi uomini, educati

ad altra vita che la mia: frutti

d’una storia tanto diversa, e ritrovati,

quasi fratelli, qui, nell’ultima forma

storica di Roma. Li osservo: in tutti

c’è come l’aria d’un buttero che dorma

armato di coltello: nei loro succhi

vitali, è disteso un tenebrore intenso,

la papale itterizia del Belli,

non porpora, ma spento peperino,

bilioso cotto. La biancheria, sotto,

fine e sporca; nell’occhio, l’ironia

che trapela il suo umido, rosso,

indecente bruciore. La sera li espone

quasi in romitori, in riserve

fatte di vicoli, muretti, androni

e finestrelle perse nel silenzio.

È certo la prima delle loro passioni

il desiderio di ricchezza: sordido

come le loro membra non lavate,

nascosto, e insieme scoperto,

privo di ogni pudore: come senza pudore

è il rapace che svolazza pregustando

chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;

Essi bramano i soldi come zingari,

mercenari, puttane: si lagnano

se non ce n’hanno, usano lusinghe

abbiette per ottenerli, si gloriano

plautinamente se ne hanno le saccocce

piene.

Se lavorano – lavoro di mafiosi

macellari,

ferini lucidatori, invertiti commessi,

tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,

manovali buoni come cani – avviene

che abbiano ugualmente un’aria di ladri:

troppa avita furberia in quelle vene…

 

Sono usciti dal ventre delle loro madri

a ritrovarsi in marciapiedi o in prati

preistorici, e iscritti in un’anagrafe

che da ogni storia li vuole ignorati…

Il loro desiderio di ricchezza

è, così, banditesco, aristocratico.

Simile al mio. Ognuno pensa a sé,

a vincere l’angosciosa scommessa,

a dirsi: “È fatta,” con un ghigno di re…

La nostra speranza è ugualmente

ossessa:

estetizzante, in me, in essi anarchica.

Al raffinato e al sottoproletariato spetta

la stessa ordinazione gerarchica

dei sentimenti: entrambi fuori dalla

storia,

in un mondo che non ha altri varchi

che verso il sesso e il cuore,

altra profondità che nei sensi.

In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

Il desiderio di dare una svolta alla propria vita è già presente in uno dei primi romanzi di Pasolini, Una vita violenta, del 1956.

“La trama di Una vita violenta mi si è fulmineamente delineata una sera del ’53 o ’54, quando stavo finendo di scrivere Ragazzi di vita. C’è un punto della Tiburtina, all’altezza di Pietralata, e poco prima di Tiburtino III e Ponte Mammolo (dove allora abitavo), che si chiama il “Forte”. Vi si vedono una caserma, un bar, una fabbrica, un deposito di pullman, delle baracche, e, dietro, un’altura, un montarozzo spelacchiato e infernale, il “Monte del Pecoraro” (che ho tante volte descritto nei miei libri, e che ridescriverò nel primo Canto del mio nuovo romanzo, un Inferno, appunto, che si chiama La mortaccia). Pioveva, o era appena cessato di piovere. C’era un’aria fradicia e dolente, con quell’azzurro cupo, funereo, troppo lucido che si scopre in fondo all’orizzonte quando il tempo si rasserena verso sera, ed è ormai troppo tardi.  Camminavo nel fango. E lì, alla fermata dell’autobus che svolta verso Pietralata, ho conosciuto Tommaso”.

In esso il protagonista Tommasino, un ragazzaccio appunto di Pietralata, vive un’infanzia e adolescenza malavitosa, fatta di furti, violenza e prostituzione. L’opportunità di cambiare avviene dopo che alla madre è stata data la possibilità di trasferirsi nei nuovi palazzi dell’INA-case, enormi agglomerati di cemento posti in periferia di Roma. Ora che Tommasino ha una casa “borghese”, sembra di poter ora intraprendere una vita nuova e rispettabile, ma il suo sogno di elevazione sociale è destinato a fallire; alla visita militare risulta ammalato di tubercolosi e viene ricoverato in ospedale dove conosce pazienti politicizzati. Una volta fuori vuole a tutti i costi cancellare il passato, si iscrive al Partito Comunista Italiano, partecipa attivamente a manifestazioni e iniziative. Progetta di vivere assieme a una ragazza conosciuta nella borgata, Irene, con la quale fino ad allora aveva stretto un legame patetico e superficiale. Muore cercando di salvare una donna durante un’alluvione, atto di estremo altruismo per un “borgataro” come lui.