RACCONTO. Charles

Un piccolo peschereccio galleggiava solitario nel mare intorpidito, avvolto nella nebbia. Sembrava che volasse, in un unico bagliore grigio. In quell’atmosfera surreale, il porto s’intravedeva con i suoi muri giganti, che lo proteggevano dal mare, illuminato da lampioni tremolanti e dai piccoli fari delle enormi gru arancioni. Charles si strinse nel suo cappotto nero e accese una sigaretta, inalò il fumo sputandolo un attimo dopo intorno a lui. Gli faceva male la gola e si pentì di non aver indossato la sciarpa prima di uscire di casa. Alzò il bavero della giacca e adagiò il suo taccuino sulla ringhiera umida del pontile. Iniziò a scrivere le prime parole che gli venivano in mente: “Mare”, “barche”,”nebbia”, poi restò immobile, cercando di elaborare un verso di senso compiuto; “l’atmosfera è ottima per scrivere una poesia”, pensò, ma ormai erano due anni che non ne componeva una decente. Scriveva da quando aveva dieci anni, era un hobby poi divenuto ragione di vita senza troppe soddisfazioni. Adesso che di anni ne aveva quaranta poetava per stupirsi, o forse, per sentirsi vivo in quelle giornate perse a lavorare come impiegato nell’ufficio postale. Sfogliò distratto le pagine del taccuino, l’ultimo pensiero scritto risaliva al nove aprile dell’anno prima e recitava: “C’è un solo modo di dimenticare il tempo: impiegarlo.” Sorrise, ricordò che quella frase la annotò durante il periodo più impegnativo della sua vita, cioè quando riuscì a farsi pubblicare la sua prima e unica raccolta di poesie; era deciso a non darle un titolo, ma l’editore pretese almeno una parola da stampare sulla copertina, così scelse il suo nome ,“Charles”, da piazzare sopra un quadro di Munch che ritraeva un uomo seduto in un bar.
Il libro vendette una cinquantina di copie, non molte per sperare nella pubblicazione di un nuovo lavoro, così si rassegnò a scrivere i suoi pensieri per il puro gusto di farlo, senza sognare di guadagnarci i soldi necessari per vivere.
Richiuse il taccuino e lo infilò nella tasca della giacca, diede un’ultima
occhiata dal pontile al panorama che si nascondeva sotto a bruma novembrina e s’incamminò verso la strada in cerca di qualche sensazione da annotare.
Le navi mercantili attraccate al porto erano enormi, apparentemente immobili, sembravano riposare dopo chissà quante settimane in mare. Sulle fiancate gli oblò erano illuminati dall’interno; i marinai giocavano a carte e trascorrevano il tempo libero a tracannare vino in attesa di ripartire: si udivano gli schiamazzi, in lingue diverse, che si mischiavano tra loro.
Una delle imbarcazioni esibiva un nome scritto con la vernice bianca, le lettere erano gigantesche e non troppo definite.“Neelps, ma che razza di nome è? Forse sarà inglese o tedesca” pensò Charles mentre camminava vicino alla nave sulla banchina. Tirò fuori il taccuino e scrisse “Neelps” su una pagina a caso, poi continuò a camminare. Mentre ripensava alle navi un rumore sordo che lo fece sobbalzare, proveniva da qualche parte dietro la sua schiena. Voltandosi di scatto fece cadere a terra la penna che stringeva nella mano destra; chinandosi per raccoglierla, notò una macchia bianca nella nebbia a diversi metri da lui. Si avvicinò lentamente mantenendo gli occhi fissi sulla sagoma, ma arrivato a circa mezzo metro da lei si accorse che era un albatro, una specie di gabbiano gigante e maestoso ed era difficile vederne uno così da vicino.
L’animale restò immobile, come se volesse farsi ammirare; aveva le piume bianche con delle sfumature nere sulle ali. Saltellò verso Charles e lo guardò fisso negli occhi.
-Cosa c’è? Vuoi per caso dirmi qualcosa?- domandò sentendosi subito uno stupido a parlare con un animale.
L’albatro scosse il capo, fece un altro saltello e si fermò di nuovo, questa volta però mosse il becco in direzione del mare, precisamente dove si trovavano gli scogli. Charles si avvicinò verso di lui come
se volesse accarezzarlo e il volatile, offeso, spiccò il volo goffamente spiegando le sue grandi ali bianche e nere. Ma trovò un ostacolo al suo decollo. Un’ala restò impigliata in una rete abbandonata sulla banchina. L’albatro si dimenòcon tutta l’energia che aveva, tentando di liberarsi dalla morsa della rete. Charles lo guardò per qualche istante, provava pena per quell’uccello; talmente smanioso di volare in cielo da voler morire, pur di avere le ali libere. 
Si avvicino al volatile, cercando di non farsi colpire dalle sue ali impazzite. Afferrò la rete, ma era troppo aggrovigliata per riuscire a liberare la sua ala. L’albatro all’improvviso gridò. Charles indietreggiò ma riuscì a strattonare la rete e finalmente l’animale scrollò l’ala e spiccò il volo, sistemandosi sull’albero di una piccola barca che galleggiava nel porto. Charles prese il suo taccuino e iniziò a disegnare, non aveva mai disegnato in vita sua, era convinto di non essere capace. In piedi in mezzo alla nebbia, in un’ora disegnò quell’albatro. Appena finì di colorargli il becco il volatile se ne andò, eclissandosi nel cielo.