La cecità nella poesia di Pascoli

Il motivo della cecità è stato utilizzato nei testi sacri e letterari per scopi differenti: per indicare metaforicamente un atteggiamento di indifferenza verso qualcosa che doveva essere visto e per indicare la capacità di ‘vedere’ la realtà in maniera diversa, forse più intensa, rispetto a quella analizzata dagli occhi.

Già nella Bibbia (Apocalisse 3, 17) citato proprio da Pascoli in Sotto il velame, si ritrova il motivo del cieco: quia dicis quod dives sum et locupletatus et nullius egeo et nescis quia tu es miser et miserabilis et pauper et caecus et nudus (perciocchè tu dici: Io son ricco, e sono arricchito, e non ho bisogno di nulla; e non sai che tu sei quel calamitoso, e miserabile, e povero, e cieco, e nudo.)

Cecità che torna come punizione e potere per il mitico indovino greco Tiresia, privato della vista e ricompensato da Zeus con la capacità di predire il futuro.

Da non dimenticare anche la cecità di Omero, vista anche come mezzo indispensabile grazie al quale il poeta riesce a non soffermarsi sulla ‘vista’, orientandosi sulla ‘visione’.

Anche all’inizio del viaggio di Dante nell’inferno la cecità è una condizione peccaminosa, procurata dal ‘sonno’, che allontana l’anima dalla fede.

Nel trattare il motivo della cecità in Giovanni Pascoli occorre considerare sia la sua biografia, sempre indispensabile per comprendere i riferimenti della sua poesia, che la sua idea delle cose e della loro rappresentazione.

Nelle opere “Il cieco”, “Il Fringuello cieco” e “Il cieco di Chio”, rispettivamente contenute nei Poemetti, nei Canti di Castelvecchio e nei Poemi Conviviali la cecità è considerata allo stesso tempo condizione invalidante e capace di far esplorare una dimensione diversa delle cose, al di là di ciò che appare agli occhi.

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Predominante nel componimento “Il cieco”, composto nel 1896 e inserito nei Poemetti, è il ritratto di un’esistenza che non può contare su una guida, impossibilitata a procedere il suo corso.

Pascoli scrisse questo componimento, suddiviso in nove parti e composto da sessantatré versi, in un periodo molto travagliato della sua vita.

Era il 1896, dopo pochi mesi dalle nozze di sua sorella Ida, Pascoli viveva un momento di smarrimento e indecisione senza precedenti, paragonabili forse a quelli vissuti a seguito della morte del padre, prima figura familiare cancellata con brutalità dalla sua vita.

Il matrimonio di Ida con Salvatore Berti, celebrato il 30 settembre 1895 presso la chiesa del Soccorso rappresenta uno scossone importante per il poeta. Scrive l’opuscolo Nelle Nozze di Ida ma non partecipa né alla cerimonia né al rinfresco. Resta nel suo studio in attesa della visita della sposa, per consegnarle 50 lire utili per il suo viaggio.

Scrive la sorella Maria: 

Egli l’aspettava, ma nel vederla pronta per la partenza ebbe uno scoppio di pianto, e: «Addio, Ida! addio, Ida! sii felice!» le disse con la voce spezzata dai singulti. Indi le dette le 50 lire del primo assegno che si era obbligato di passarle mensilmente e altre 50 lire in dono perché avesse un po’ di scorta nel viaggio. (Non poteva di più, avendo già speso tanto per lei e dovendo pensare al trasferimento a Castelvecchio e a varie altre cose). Infine si baciarono e nell’accomiatarsi da lui Ida gli disse: «Fa anche tu quello che ho fatto io»

Il tema del dolore per la “perdita” della sorella, che esce per sempre dal nido in cui il poeta contava di passare la sua vita, è un dettaglio che aiuta a comprendere meglio cosa aveva intenzione di delineare attraverso questi versi.

Pascoli si ritrova a vivere senza Ida, ha perso dunque un suo punto di riferimento, che assieme alla sorella Maria costituiva una guida alla sua esistenza.

La figura del cieco può essere anche un espediente usato per per esprimere il suo punto di vista riguardante l’umanità intera, cieca di fronte al mistero dell’universo e della vita, soggiogata dalla vanità che plasma ogni attimo.

Il cieco del componimento si ritrova nel mondo senza conoscere nulla; non ha idea di quale sia la propria provenienza e non conosce la propria destinazione, così come l’umanità non sa da dove è venuta e non sa dove andrà a finire.

Il cieco ha perso il cane che lo guidava, così l’umanità ha perso i suoi riferimenti utili al raggiungimento della felicità. Il cieco infine si rivolge a una presenza misteriosa, per avere indicazioni e sperare nel suo ultimo intervento. Ma anche quella non risponde, tacendo «immobilmente». Il vagabondaggio del cieco appare quindi senza senso  nella vana attesa della «sempre aspettata alba d’un sole».(Oliva)

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I primi versi del componimento contengono elementi inquietanti e misteriosi, in cui si fondono riferimenti alla morte e a presagi oscuri.

Chi l’udì prima piangere? Fu l’alba.
Egli piangeva; e, per udirlo, ascese
qualche ramarro per una vitalba.

E stettero, per breve ora, sospese
su quel capo due grandi aquile fosche.
Presso era un cane, con le zampe tese

all’aria, morto; tra un ronzìo di mosche.

 

Il primo verso contiene il riferimento al momento esatto del giorno in cui avviene in tutto: l’alba, quindi appena dopo l’oscurità della notte.

I primi soggetti ad accorgersi della sua condizione e del suo pianto sono tutti provenienti dal mondo animale: un ramarro, due aquile e un cane, morto, circondato da mosche. Le due grandi aquile fosche rappresentano un segno infausto, citate nel secondo libro dellOdissea:

e dall’alto del monte due volanti aquile a lui
Mandò l’eterno onniveggente Giove.
[…]
Che si volsero in giro, e, l’ali folte
Starnazzando, e mirando a tutti in faccia,
Morte auguraro: al fin, poichè a vicenda
Con l’unghie il capo insanguinato e il collo
S’ebber, volaro a destra, e dileguârsi
Della città su per gli eccelsi tetti.

E nell’Apocalisse 8:

 

Vidi poi e udii un’aquila che volava nell’alto del cielo
e gridava a gran voce: «Guai, guai, guai agli abitanti
della terra al suono degli ultimi squilli
di tromba che i tre angeli stanno per suonare!».

Dal punto di vista acustico ciò che predomina nell’aria è il solo ronzìo delle mosche, che volano accanto alla carcassa del cane.

Nella seconda parte il cieco inizia il suo monologo, con il quale chiarisce la sua condizione e spiega il motivo della sua disperazione.

Il cieco non conosce né la sua provenienza e né la sua destinazione. Come riferimento si fida dell’intelligenza del cane, che è la sua guida. Interessante è l’uso in questi versi dell’ipallage “nero/tacer notturno”, usata per marcare l’oscurità, completata dal suono /o/, che si lega a nessi /on/, /no/, /oc/, con le sibilanti “sognai” “sogno”, “so” e dalla ripetizione di “voci/voci”, “nero/nero” e “vedevo/vedevo”.

Le sibilanti contribuiscono a esprimere un senso di indefinito, misto alla leggerezza/fatalità, del sonno e del sogno.

La ripetizione delle parole invece sottolineano l’indeterminatezza che la condizione del cieco vuole esprimere, data soprattutto dalla totale mancanza di riferimenti “donde venni non so; né dove vada saper m’è dato”.

Il cieco è guidato dal cane, percepisce soltanto voci e si basa su quelle per distinguere le ore del giorno da quelle della notte. E’ consapevole di trovarsi immerso nella notte solo quando sente intorno a sé un oscuro silenzio.

Una volta addormentato, ne Il chiaro sonno (in contrapposizione con il nero della precedente sezione),  il filo si rompe. Il fatto avviene in mezzo a un rombo d’api. Il cieco quindi di alza in piedi e con movimenti instabili si muove nel buio. La precarietà dei movimenti, immersi nell’oscurità irreversibili per la sua condizione, sono evidenziati da nesso “/va/“ che contribuisce alla ripetizione sonora di in vano e levai.

in (va)no. Mi le(va)i sopra i ginocchi,
mi le(va)i su’ due piedi. E l’aria in(va)no
nera palpo, e la terra anche, s’io tocchi

Il verbo palpare utilizzato per esprimere il tentativo di muoversi nel buio, contribuisce a delineare la liquidità dell’aria, immune al tatto.

Nella sezione successiva il cieco si rende conto di aver perso il suo cane, la sua guida, finito chissà dove.

Nelle successive quattro sezioni il cieco si rivolge ad una presenza misteriosa e indecifrabile, esortandola a rivelargli ciò che non riesce a vedere. Le sue richieste però sono inutili, non ottiene infatti nessuna risposta.

Pascoli inserisce al verso 2 dell’ultima sezione del componimento la rugiada, che piovve sulla testa del cieco dalle stelle. Il particolare fenomeno rimanda a Plinio il Vecchio, secondo cui la rugiada è la saliva egli astri di cui si nutrono le cicale.

Rimasto immobile e senza risposte il cieco distingue soltanto la Morte. E’ lei che guida l’uomo verso la strada vera, che conduce al nulla.

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Nella poesia “Il fringuello cieco”, contenuta nei Canti di Castelvecchio e scritta nel 1902 Pascoli delinea il motivo della cecità in maniera diversa rispetto al componimento “il cieco”.

Questa volta essa non è un ostacolo o la condizione negativa in cui vive l’umanità, incapace di guardare a fondo nelle cose.

La cecità del fringuello, che è il protagonista dell’opera, è invece la condizione grazie alla quale l’animale riesce a ‘vedere’ ciò che con gli occhi non riusciva a cogliere nel mondo che lo circondava.

Paradossalmente è attraverso la perdita della vista che il fringuello si rende conto che il sole c’è. Nella poesia l’elemento visivo viene annullato per lasciar spazio a quello acustico, nel quale si rivela la natura.

Gli elementi semantici presenti nel testo quindi diventano espressioni del fonosimbolismo pascoliano, anche grazie alla presenza degli uccelli, che sono gli animali intorno ai quali ruota tutto il motivo del componimento.

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Il protagonista della poesia è un fringuello, è lui che in prima persona racconta ciò che gli è avvenuto. Pascoli utilizza la figura dell’animale, ma in realtà è il punto di vista autentico della poesia è quello del poeta, che attraverso la capacità di ascoltare la sua voce interiore (amplificata dalla cecità) può raggiungere la verità.

La poesia si apre con la parola Finch, utilizzata dal poeta come cellula onomatopeica che evolve successivamente nella congiunzione Finché. Il Finch rimanda al verso del fringuello, che inizia a raccontare la sua vicenda. In effetti si assiste ad un’evoluzione: la cellula onomatopeica, che letta non possiede un contenuto proprio se non riproduzione del verso del volatile, diventa parte del linguaggio normale e umano.
Si assiste dunque a un al verso dell’animale che diviene ‘grammaticalizzato’ (Oliva).
La particolare trasposizione dalla lingua degli uccelli a quella umana si ripete nei primi due versi della prima strofa e nel primo verso della penultima strofa.

Finch…finché nel cielo volai,
finch…finch’ebbi il nido sul moro

«Finch…finchè non vedo, non credo».

 

Il fringuello racconta nelle prime quattro strofe il motivo principale del componimento: il sole. Gli uccelli che sono con lui nella macchia, una cornacchia, un assiolo, un usignolo, una allodola e un merlo, a turno cercano di vedere il sole all’alba e scoprire se è visibile.

Da sottolineare il ricorso alla pura onomatopea, che si sviluppa all’interno del linguaggio degli animali che parlano indirettamente attraverso le considerazioni del fringuello.

Nel verso 12 l’usignolo cantava:

«Addio addio dio dio dio dio …»

Se nei versi precedenti si assiste alla trasformazione della lingua degli uccelli a quella umana, l’usignolo passa dalla lingua umana alla pura onomatopea, che riproduce il suo verso.

Lo stesso passaggio appare nel verso 24, quando l’usignolo risponde al merlo:

«Anch’io anch’io chio chio chio chio…»

Un altro esempio della tecnica utilizzata da Giovanni Pascoli è presente in Echi di cavalleria. 

 

Per qua per qua, gracchia le torbide acque

Per qua per qua riproduce il verso delle rane, che diventa anch’esso ‘grammaticalizzato’, così come in Detriti il verso dell’usignolo:

E l’usignolo di tra’ pioppi snelli
–  Tiò tiò – trilla agli estremi albori
(vv.3-4)

Il fringuello non vedeva il sole, quindi non credeva che tutti gli altri uccelli lo vedessero. Quando il volatile perde la vista realizza paradossalmente la sua esistenza. La cecità dunque gli permette di vedere ‘oltre’, dove non era arrivato con lo sguardo.

Per suggerire l’idea di oscurità improvvisa data dalla cecità del fringuello Pascoli ricorre al verbo annerare, che grazie al nesso /nn/ e le /r/ ritrae perfettamente la perdita progressiva della vista.

Nell’ultimo verso il fringuello invoca il sole e ricorre alla sua lingua, che si esprime attraverso l’onomatopea per poi passare alla lingua umana: sol sol sol sol…sole mio.

 

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Nel Cieco di Chio, contenuta nei Poemi Conviviali Giovanni Pascoli celebra la figura di Omero e la straordinaria capacità del poeta, privato della vista per aver gareggiato con la dea canora, di sfruttare la punizione per vedere ed esprimere il ‘mistero’.

Allo stesso modo del Fringuello cieco, in questo componimento Pascoli considera la cecità non come ostacolo insuperabile che porta allo smarrimento e alla perdita dei riferimenti (come era invece avvenuto ne Il cieco), ma un mezzo attraverso il quale il poeta può ambire a scoprire misteri nascosti alle persone, sostituendo alla semplice ‘vista’ la più profonda ‘visione’ e al ‘vedere’ il ‘mirare’.

In sostanza la cecità è considerata una metafora del poeta, persona che per ritenersi tale deve necessariamente coltivare tale inclinazione.

Non vedendo, il protagonista del componimento diventa capace di ascoltare meglio la sua voce interiore e quindi prestare maggiore attenzione a tutto ciò che lo circonda.

Il concetto è espresso chiaramente nell’opera, nella quale si legge il dialogo tra Omero e la giovane Deliàs.

Il poeta racconta di essere stato privato della vista (strumento del rapporto col reale) perché ha osato gareggiare con la dea canora.

La dea per punirlo gli consegna anche il dono più prezioso, la capacità di vedere ‘oltre’, iniziandolo dunque alla poesia:

Sarai felice di veder tu solo,
non ciò che il volgo vìola con gli occhi,
ma delle cose l’ombra lunga, immensa,
nel tuo segreto pallido tramonto.

Omero in seguito racconta il momento esatto che seguì la perdita della vista:

e, per tentar che feci
le irrequïete palpebre, più nulla
io vidi delle cose altro che l’ombra